Monza il virus uccide Moltifiori, il sindaco dall’alito barocco

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Aldo Moltifiori ad inizio anni Novanta era stato uno dei primi sindaci della Lega Nord in Italia

Monza il virus uccide i politici, ma non la memoria. Aldo Moltifiori già sindaco di Monza me lo ricordo bene. Erano i tempi della guerra ai “terroni”. Era riuscito a strappare un sorriso a Montanelli. Figuriamoci. Evento raro. Unico. Eppure era capitato due volte. Quando al “grande vecchio” avevo raccontato del presunto furto dell’auto del borgomastro di Monza. E l’episodio dei carabinieri che ne aveva causato la sua destituzione. Vi assicuro che rido ancora oggi a distanza di quasi 30 anni. Aveva fatto pure sorridere l’impassibile Antonio Cusumano l’ex procuratore capo di Monza che aveva cercato in tutti i modi di fargli capire l’assurdità del suo comportamento. Niente. Testone. Il borgomastro aveva voluto provare se il muro fosse più duro della sua testa. Sappiamo come era andata a finire. Mi scuso sin d’ora con i lettori per l’insolita lunghezza dell’articolo. Ma lo devo ai miei ricordi.

Monza il virus e la Monza dell’estate del ’92

Monza il virus primo click. Come dimenticare Monza a quell’epoca. Bruno Ferrante (poi diventato vicecapo della Polizia). Il commissario prefettizio che governa la città scassata dalla Tangentopoli nostrana. Un signore. Marco Pannella candidato ed eletto che polemizza con lui dopo aver fumato il terzo pacchetto di sigarette. La gente fuori dal Tribunale che faceva quadrato attorno ai giudici. Valter Giovannini (quello che sarà il pm del processo alla Uno bianca). Walter Mapelli quasi agli inizi. Il mio amico fraterno Luca Magni, altro monzese doc, che aveva acceso la miccia a Milano denunciando Mario Chiesa. Le tangenti di Monza che viaggiavano in parallelo a quelle della Madonnina. Una sorta di gara alle manette. Il bollettino giornaliero degli arrestati. Una Lega al 32 e passa per cento in città. Umberto Bossi al comizio del cinema Teodolinda e al teatro Manzoni con la gente che lo ascoltava ammassata sul marciapiede. Una Democrazia Cristiana da sempre padrona di Monza, stordita. Con il povero senatore Luigi Granelli che nemmeno aveva la patente a cercare di salvare il salvabile. Io piccolo cronista di provincia de Il Giornale” di Montanelli che faticavo a stare dietro alle manette e non poteva sbagliare un colpo, pena l’esclusione.

Monza il virus, la Lega di Monza primi anni Novanta

Moltifiori non era stato un semplice primo cittadino di Monza. Seppur per il tempo di un battito d’ali di un colibrì. Con quello di Varese, era diventato uno dei primi sindaci di una grossa città conquistati dalla Lega Nord. Quella di Bossi. Quella dello slogan “Roma ladrona”. È stato un fatto politico nazionale rivoluzionario. Dicembre 1992. In Lega a Monza dominava Giorgio Brambilla, un simpatico pensionato del Bustocco che si era trovato in poco tempo dal vendere detersivi al Senato della Repubblica, senza capire come. Aveva due doti Brambilla. Era consapevolmente esilarante. Una sorta di Vincenzo De Luca antelitteram. Ed era amico di Bossi. Marco Mariani medico monzese doc era stato relegato in seconda fila. Nonostante la copertina di Famiglia Cristiana. Astro nascente, ma non ancora Supernova. E un Cesare Gariboldi già sugli scranni del Consiglio comunale dove è rimasto. Massimiliano Romeo (attuale capogruppo al Senato) muoveva i primi passi e poi lui. Aldo Moltifiori venuto dal nulla. Da Ronco Briantino.

Monza il virus e l’accordo con la sinistra

Aldo Moltifiori ha fatto il sindaco di Monza per sbaglio. Il predestinato era Marco Mariani. Plurivotato con oltre 5mila preferenze. Indicato da Bossi come futuro borgomastro di Monza. Ma i numeri usciti dalle urne e la legge elettorale di allora, non consentivano al Carroccio di governare da solo. Unica strada l’accordo con la sinistra. Ma il Pds, Ds, la Cosa di sinistra insomma per dirla come Achille Occhetto, non avrebbe mai potuto accettare lo sgarbo. Ed allora fuori Mariani dentro lo sconosciuto Moltifiori che in città non conosceva nessuno. Era stato messo in lista per riempiere. Uno che faceva il manager era più presentabile di altri ai monzesi che sempre hanno avuto la puzza sotto il naso. Era durato poco però.

Moltifiori Benevolo e il Piano Regolatore

“Chiamami Aldo – mi diceva con decisione – sarò il tuo borgomastro”. Poco importava se io fossi orgogliosamente di Lissone. Lui era convinto fossi un suo amministrato. Tanti sono i ricordi piacevoli perché Moltifiori più che un sindaco era quasi un comico simpatico prestato alla politica. Il primo ingresso ufficiale nelle stanze del potere Moltifiori lo fece alla grande. Si era messo in testa di rifare il Piano regolatore affidandosi ad un onestissimo architetto monzese taciturno e silenzioso come lo è Maurizio Antonietti. Lontano mille miglia dalle sirene dei costruttori locali. Un “comunista bulgaro” che voleva davvero cambiare Monza dopo che le manette avevano cambiato i monzesi. Illuso. Dietro lui c’era del resto mica uno qualunque. Ma Leonardo Benevolo. L’urbanista di Cellatica in provincia di Brescia. Considerato, giustamente allora, il numero uno degli urbanisti al mondo. Visionario come Aldo.

Arriva l’architetto e il palazzo dell’Upim – aneddoto 1

Monza il virus secondo click. Benevolo viene presentato in pompa magna nell’ufficio del sindaco. Come mossa propagandistica è un colpo di quelli che contano. Avere la collaborazione di un super urbanista come lui non è cosa semplice. E anche per una cifra non alta. Moltifiori ,già in evidente stato confusionale, nonostante l’ora mattutina, si alza di scatto dalla scrivania. Va incontro a Benevolo. Gli si piazza davanti. Non proferisce verso. Quel timido vecchietto rimane stupido. Perplesso. Più che altro anche dall’alito barocco del borgomastro. Aldo si gira di scatto ancora muovendosi volutamente come un robot. Apre la finestra del suo ufficio da sindaco con un colpo secco. Tra uno sbattere di persiane storiche non proferisce verbo ancora. Poggia le mani sul davanzale. E senza girarsi spara: “Lei (pausa craxiana ) deve farmi una cosa. Le chiedo solo una cosa (altra pausa chilometrica come se fosse Celentano). Anzi. la obbligo a fare una cosa”. Il tutto senza girarsi verso il manipolo basito di interlocutori alle sue spalle. “Deve abbattermi il palazzo dell’Upim in maniera categorica ed assoluta”. Cosa intedesse con “assoluta” e “categorica” rimane ancora oggi un mistero. Poi sempre di spalle. “L’udienza è finita potete andare tutti a fare il vostro lavoro”. Pure in questo caso sappiamo anche come è andata a finire la storia del palazzo dell’Upim. C’è ancora.

Mi hanno rubato la macchina

Esterno notte. Ore tre del mattino. Fine di un Consiglio comunale acceso. Gente stanca che si trattiene un poco sul piazzale davanti al Comune prima di infilarsi nel letto. Solita routine. Improvvisamente un urlo beluino. Dal portone secondario esce Moltifiori con i rari capelli per aria e la barba furente. In evidente stato di alterazione mentale spara: “La mia macchina dov’è?”. Ed ancora urla. “L’ho parcheggiata non c’è più”. Telefonino afferrato in fretta. Pattuglia dei vigili che si piomba sul posto come se fosse un manipolo di paracadutisti della Folgore. Lui che continua ad urlare sostenendo che era stato vittima di un furto. E giù un bicchiere di limoncello dietro l’altro per superare lo spavento. Un attentato alla sua figura. E giù altro limoncello spuntato da chissà dove. Venti minuti esilaranti quasi alle prime luci dell’alba. Quando Moltifiori sta per firmare biascicando la denuncia ai vigili urbani. Un altro urlo di un consigliere comunale. “Trovata”. Niente furto. Niente attentato. Si era scordato dove l’aveva messa qualche ora prima. Esattamente dove l’aveva sempre parcheggiata.

Moltifiori, i carabinieri e la fine

Piazza dell’Arengario. Sul marciapiede io e l’allora segretario Pds Valerio Imperatori, giovane promessa della politica nostrana rimasta tale. Si chiacchiera. Passa una Fiat Uno con sopra due giovani. Riconosco gli occupanti. Sono amici. Li ho appena salutati in caserma poco prima. Sono due carabinieri in borghese della squadra antidroga. L’aspetto non è per nulla rassicurante, ma debbono frequentare i giardinetti non le Canossiane. La macchina ci sorpassa lenta. Alle nostre spalle barcollando arriva il borgomastro. Si mette a gridare. Nessuno ci fa caso. Ci siamo abituati. Chiama i vigili urbani come se fossero suoi “sgherri”. Nessuno di noi parla. Blatera solo lui senza dare il tempo di replicare. “Voi due scendete dall’auto. Chi siete? vergognatevi questa è una zona a traffico limitato, io sono il sindaco”. Si sbraccia, si mette davanti al cofano. Lo avvisiamo che trattasi di Forza dell’Ordine in Servizio. “Vi faccio la multa lo stesso, vergognatevi voi che dovete dare l’esempio”. Niente. Si forma un capannello di gente. A Moltifiori non pare vero di avere platea. I due malcapitati carabinieri che si sono qualificati subito, stentano a credere. Ed allora la genialità del borgomastro. “Quando siete in servizio e passate dalla Ztl dovete mettere la paletta di riconoscimento sul parabrezza. Dovete essere riconoscibili”. Logica vuole che un servizio antidroga in borghese fosse dettato da altri cannoni che non siano quelli della riconoscibilità. Scatta la multa. Moltifiori viene denunciato per abuso d’ufficio. Come era nella logica. Aldo si fa mal consigliare da un suo collaboratore. Patteggia la pena riconoscendo lo sbaglio pensando di essersela cavata così. Due giorni dopo viene silurato dal Prefetto e destituito in quanto incompatibile. Esce lui entra Mariani. Inizia il suo declino che passa dall’uscita dalla Lega. Il transito nell’Ape, la malattia e la morte dimenticato da tutto e tutti. Non mancherai a Monza Aldo. Ma pazienza tra i vecchi che masticano politica come me, ci ricorderemo di te. Del tuo alito barocco a tutte le ore. Delle tue stravaganze. Del:”Chiamatemi Aldo sarò il tuo borgomastro”. Non eri cattivo. Eri solo capitato al momento sbagliato da queste parti…

Marco Pirola

 

 

 

 

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