Monza è morto l’architetto Bruno Lattuada

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Classe 1956 era codepositario dei “segreti” dell’Urbanistica monzese degli ultimi 30 anni

Monza è morto Bruno Lattuada. Per chi non lo ha conosciuto la notizia potrebbe finire qui. In cavalleria come si diceva un tempo. Ma Bruno, l’architetto Lattuada, non era uno qualunque dei dipendenti comunali. Era l’Architetto. Titolo non solo onorifico che si divideva con con Mauro Ronzoni, recentemente scomparso. Erano diversi, rivali, sempre in trincea. In equilibrio tra loro con una sorta di tregua armata che ben sapevano nessuno dei due poteva rompere. Ma erano i depositari e le menti dell’Urbanistica monzese degli ultimi 30 anni. Due figure contrapposte. Ronzoni troppo intellettuale, schivo, cui sotto sotto piaceva il palcoscenico. Furbo. Sapeva piegare le resistenze dei politici e dei costruttori nostrani solo con lo sguardo altero e il sorriso beffardo. Bruno era diverso. Era il suo “negativo”. Più alla mano anche se di capacità pari al primo. È stato semplicemente più “sfortunato” nel giocarsi le carte della politica. Conosceva perfettamente il meccanismo comunale che Ronzoni disdegnava dall’alto della sua competenza. Lattuada era “il meccanismo”. Non so se rendo l’idea. Se lui si fosse messo di traverso ed era in grado di farlo rispettando i canoni della legalità, non si sarebbe potuto muovere foglia.

Monza è morto Bruno Lattuada, i due architetti

Monza è morto Bruno. Era malato da tempo. Una serie di circostanze sfavorevoli che non è proprio il caso di elencare. Il padre è stato un grande “artista” di Monza. Pittore di fama. Daniele, il fratello, dirigente comunale, ha sempre vissuto in simbiosi con lui. Lo chiamavano “Lattuadino” proprio perché più giovane e per distinguerlo dal primo. Architetto dal 1980, Bruno ha attraversato la politica camminando sul fango di inizio anni Novanta senza sporcarsi il risvolto dei calzoni. Una carriera all’ombra del Palazzaccio di piazza Trento e Trieste. Al servizio del timoniere della macchina di qualunque colore fosse il guidatore. Ci credeva in quello che faceva. Quando parlavi con Ronzoni dovevi stare attento. Tra una battuta e l’altra, ti chiedevi sempre dove voleva andare a parare. Con Bruno era diverso. Più solare anche se non meno efficace. L’ho conosciuto bene avendo vissuto per cinque nei corridoi del Comune. Me lo ricordo. La grande mole di lavoro sulla Villa Reale quando c’erano le idee, ma non i soldi. I “piccoli” si fa per dire, problemi quotidiani. Il nuovo Tribunale.

Monza è morto Bruno Lattuada, il sogno nel cassetto

Politicamente era schierato con il centrodestra. Come Mauro del resto. Ma prima veniva sempre il Comune. Il suo Comune. Che poi era anche il “nostro”. Aveva avuto un’idea brillante alla fine degli anni Novanta. E l’aveva messa nero su bianco con tanto di progetti e carte bollate. Tutto pronto. Spostare il Tribunale dal centro di Monza nell’area dell’ ex caserma IV novembre. Dove ora sorge il palazzo della semideserto della Provincia di Monza e Brianza. Ci credeva in qui disegni. Erano pure belli. Da qualche parte debbo avere ancoro lo schizzo della facciata del nuovo Tribunale che mi aveva dedicato. I soldi c’erano già. Il sogno suo stava per realizzarsi. La firma su di un edificio importante. Ed eguagliare quello di un altro suo predecessore l’architetto Luigi Ricci che ha lasciato in città tracce notevoli del suo passaggio. Anche se sconosciute alla maggioranza dei monzesi. Per quella battaglia non era sceso a compromessi. A differenza di Ronzoni che era stato sempre defilato non trattandosi di opera sua.

Ad un soffio dalla meta

Come dirigente aveva messo sotto gli Uffici che in tempo record avevano prodotto. Ma aveva fatto male i conti. Con la politica anzitutto. La lobby degli avvocati di allora, quasi tutti possessori di studi in proprietà. I magistrati poi erano favorevoli al trasferimento. A parole. Ma pure loro non vedevano di buon grado spostarsi in periferia. Il nuovo Tribunale avrebbe cambiato la faccia di Monza. Niente da fare. Le pressioni delle lobbies, la politica, il sindaco di allora che aveva cambiato idea. E aggiungiamoci pure il Centro Commerciale, fecero naufragare tutto. Peccato. Bruno se lo meritava un “monumento” alla sua opera. Davvero. Quando ebbe lo stop definitivo, ero andato a trovarlo nel suo ufficio al piano nobile del Comune. Che non è il secondo, ma il terzo (cosa che sanno bene gli addetti ai lavori…). Non c’era. Era seduto dietro l’angolo in corridoio su una sedia sgangherata. Da solo. Deluso. Gli dissi poche parole. “Non ce l’abbiamo fatta per un soffio Bruno. Ci credevo davvero anche io”. Lui con lo sguardo perso nel vuoto alzò la testa. Sorrise. O meglio, io interpretai la smorfia come un sorriso. “Grazie per l’aiuto, ma questa è Monza. Il mio errore è stato proprio questo. Sognare. Sarà per un’altra volta”. Un’occasione mancata. Me andai subito con in testa il ritornello della canzone di Ivano Fossati. “Come un treno carico di frutti, eravamo alla stazione, sì ma dormivamo tutti…”. Solo che quella volta erano stati altri ad addormentarsi. Ciao Bruno, sono sicuro che Lassù, i compromessi non serviranno. Quaggiù non ci sarà un’altra volta…

Marco Pirola

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