Lissone è morto Pino il macellaio

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Un ricordo personale di Guseppe Pennati, figura storica della città di Lissone

Lissone è morto Pino. Il macellaio di via Sant’Antonio per tanti anni ha chiuso la sua esistenza terrena. Di questi tempi e con tali chiari di luna potrebbe essere una notizia da “taglio basso” come si usava dire una volta nei giornali cartacei dove ho imparato il mestiere. Forse addirittura da tenere nel cassetto in caso di “buco” improvviso in pagina. Pronta per ogni evenienza. Venti righe di circostanza impregnate di pathos e parole scontate come si usa nei necrologi. Non è così. Per la mia famiglia non può essere così. Per i lissonesi doc, come lo posso orgogliosamente essere io, non deve essere così.

La figura

Pino era più di un macellaio. Molto di più di un commerciante. Era una figura storica di Lissone. Lontana anni luce dalle vetrine luccicanti delle esposizioni di mobili e dai tasselli venduti a “peso d’oro” che hanno fatto la fortuna di tanti miei compaesani. Lui era semplicemente Pino il macellaio. Con le sue chiacchiere, le battute alle sciure e sciurette della Lissone bene che facevano la fila davanti al bancone. Perchè lui ha sempre venduto “roba” buona, ma ci metteva di più. La simpatia e l’allegria che andava al di là del rituale obbligato tra cliente e bottegaio. Termine quest’ultimo assolutamente riduttivo nel suo caso.

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Un giovanissimo Pino il macellaio

Lissone è morto Pino il re della fettina

Dal suo avamposto di via Sant’Antonio per anni serviva bistecche, filetti, polli ed anche allungava le ossa per il cane. Ricordi nel mio caso. Una bottega come una volta. Prima che i supermercati strangolassero il piccolo commercio. Quel piccolo antro, davvero minuscolo, pieno di galline appese e salumi nel centro di Lissone aveva un fascino particolare per me. Mio zio Giuliano è stato per anni suo dipendente e fedele scudiero.

Il cavaliere e la sua armatura

La cella frigorifera alle spalle del bancone era il regno di Pino e mio zio. Quando dovevano entrare la dentro, era tutto un rituale. Il giaccone pesantissimo con tanto di collo di pelliccia appeso ad un gancio richiedeva movimenti precisi e rapidi per essere indossato. Come cavalieri medievali che si infilano l’armatura prima della battaglia. Giganti agli occhi di me bambino. Quelli stessi occhi che, come canta Ligabue, non ti ruberanno mai. Pino aveva sempre una buona parola per tutti. Figuriamoci per il nipote di Giuliano. Che ero io. In pantaloncini corti, sandaletti blu e quelle orripilanti calze bianche quasi ad uncinetto che noi quasi sessantenni abbiamo portato. Invidiavo il giaccone regale. Quando l’amico Ruggero Sala mi ha dato la notizia, una nota di melanconia mi ha preso. Gli anni passano. Pino rimarrà sempre quella persona gentile con la sua armatura pronto ad entrare nella cella frigorifera. Ti guardava e diceva ridendo: vuoi un ghiacciolo…

Marco Pirola

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