Libertà vo cercando ch’é sì cara…

bici_ebbrezza
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Di Luigi Paganelli
Lo scorso 28 aprile é stata pubblicata una nuova, curiosa sentenza della nostra Suprema Corte di Cassazione: per la cronaca si tratta della n. 17684 della IV sezione penale.
La Corte si é occupata di stato ebbrezza alla guida… di bicicletta.
Ha confermato la condanna penale di un anziano signore che era stato colto alla guida del suo potente velocipede avendo in corpo un tasso alcolemico di ben 0,9 grammi per litro.
Senza voler entrare troppo nel tecnico, diremo che la Corte ritiene che l’art. 186 del codice della strada sia applicabile a chiunque sia sorpreso alla guida di un qualsiasi veicolo, non soltanto di uno a motore dunque, con tasso alcolico al di sopra di quelli consentiti.
L’unica differenza rispetto al caso della guida in stato di ebbrezza per veicoli a motore, sta nel fatto che la sanzione amministrativa della sospensione o del ritiro della patente non può applicarsi, perché chi sta guidando una bicicletta o un qualsiasi altro veicolo non a motore, non sta usando l’abilitazione alla guida di veicoli a motore, ossia la sua patente.
Buono a sapersi per tutti quelli che a volte indugiano sul bicchiere in più, quando sono in giro in bicicletta, perché tanto non é vietato e non si fa del male a nessuno.
Ma questa sentenza mi genera ben altra riflessione. Quella sull’intensità che la normazione ha ormai raggiunto nell’invadere tutti i campi dove si esprime la nostra libertà.
Capisco che chi circola in bicicletta ubriaco genera un pericolo, assai inferiore rispetto a chi lo fa in auto, non solo a se stesso ma anche agli altri utenti della strada.
Esiste già una norma, tuttavia, che sanziona l’ubriachezza pericolosa: l’art. 688 del codice penale, che sanziona penalmente “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, é colto in stato di manifesta ubriachezza”, senza bisogno che l’ubriachezza sia anche “molesta”.
Questa estensione delle sanzioni della guida in stato di ebbrezza anche a chi guida una bicicletta, in realtà, si pone in una logica ben più invasiva: quella per cui il cittadino deve essere protetto non solo da quello che potrebbero combinargli gli altri, con eventuali comportamenti illegali o ingiusti, bensì anche da se stesso.
Questo principio, ormai abusato, in diritto si definisce “neminem laedere” ed é uno sviluppo moderno, si potrebbe dire cristiano e sociale, di quello antico e sano, sviluppato in diritto romano e scolpito sul frontone del Palazzo di Giustizia di Milano: “alterum non laedere”.
La differenza tra i due canoni sta in questo.
Se é vietato far del male o danneggiare solo gli altri, l’individuo resta sovrano di se stesso. Nessun Governo o Legislatore può intromettersi nelle scelte personali che non si riverberino sugli altri. E’ la precisa volontà della nostra Costituzione al primo comma dell’art. 13, che recita: “La libertà personale é inviolabile“.
Se invece vige un divieto generale di far del male o danneggiare “chiunque”, allora non si può far del male o danneggiare nemmeno se stessi, e ciò fornisce l’alibi al governo o Legislatore di turno di invadere la libertà di tutti. Basta “inventare” nuove necessità di protezione di sempre più ampli valori sociali o civili, o perfino economici: ne conseguono norme sempre più invasive rispetto alle nostre libertà individuali.
L’argomento non é di poco conto poiché – e a dirlo, non sono più soltanto i laici come il sottoscritto – l’esercizio delle libertà individuali é ciò che massimamente ci rende felici.
In base a queste logiche liberticide, in effetti, perché mai una norma come l’art. 186 del codice della strada non dovrebbe essere estesa anche a chiunque circoli per strada in stato di ebbrezza… a piedi: in fondo la tutela sottostante non é la medesima del divieto di guida in “stato di ebbrezza” di un banale velocipede?

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