
Quello che è accaduto in Europa dopo il referendum in Grecia era già scritto prima: è giusto così e riguarda tutti noi intimamente
di Luigi Paganelli, Avvocato
Mi sono sempre chiesto cosa avesse indotto Carlos Santana a dedicare all’Europa quel suo meraviglioso brano di qualche anno fa. Per i pochi che non lo conoscessero e per chi volesse risentirlo, qui il video della canzone.
Noi europei facciamo sempre un po’ fatica a “pensare europeo”.
Se in occasione del referendum ellenico l’avessimo fatto, quel che è successo dopo non sarebbe stato una sorpresa. Sia concesso a questa rubrica il merito di aver scritto subito che cosa sarebbe poi accaduto.
Il primo accordo tra Grecia ed “Euro-zona” di lunedì scorso era invero già scritto nella volta stellata del nostro piccolo ma straordinario continente.
Il fatto è che, quando si deve costruire una grande comunità civile le tappe fondamentali sono costituite da tanti momenti “storici”, ove ciascun protagonista è chiamato a cedere un pezzetto della sua sovranità nazionale per riceverne in cambio la solidarietà degli altri compagni di viaggio.
Le scuole ideologiche del secolo scorso hanno la tendenza a ridurre tutto ai termini economici, salvo poi lamentarsi che si fa solo economia e poca o nulla politica: è un problema dei nipotini di Hegel e dei figliocci di Marx.
Chi pensa in termini liberali sa, invece, che dove c’è economia c’è sempre anche politica.
La storia degli Stati Uniti, ad esempio, insegna che la nazione più ricca e potente del mondo, almeno fino a pochi anni fa, è nata da guerre generate da questioni fiscali.
Orbene, nel giugno 2013, nel disinteresse dei principali “media”, la Corte Costituzionale tedesca aveva respinto il ricorso del governo di Frau Merkel volto ad impedire che la Banca Centrale Europea usasse i soldi di tutti gli Stati dell’area Euro per comprare titoli di stato dei Paesi in difficoltà: quella volta la Corte aveva in pratica decretato una perdita di sovranità della Germania a favore dell’Unione Europea, o meglio dell’area Euro.
Pochi sanno che nel settembre 2011 il Bundesverfassungsgericht aveva già dichiarato legittimi gli interventi di salvataggio della Grecia ma che ancora oggi altri due ricorsi pendono avanti a quella Corte Costituzionale avverso la politica “solidale” di Mario Draghi in BCE: nuove decisioni, quindi, dovranno essere assunte dai Tedeschi circa la rinuncia a brani della loro sovranità a favore della solidarietà europea.
D’altro canto, la scelta di Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro di adottare politiche riformistiche del loro mondo economico dettate in buona sostanza da Bruxelles è avvenuta senza drammatiche sottolineature referendarie, ma è un fatto storico già passato agli annali: anche quelle sono cessioni di sovranità in cambio di solidarietà.
Solo che ci viviamo dentro e non è detto che sia così facile accorgersene.
Quindi, da un lato, chi deve mettere soldi chiede a chi li riceve di rinunciare ad un po’ del suo “modus vivendi” e di assumersi parecchie responsabilità in termini di virtù di bilancio.
Dall’altro canto, chi riceve denaro con cui sostenere il suo debito pubblico, chiede agli altri partners di essere solidali con lui ed assumersi anche un po’ del peso del suo deficit.
Prima questo scambio avveniva nella reciproca fiducia che i soldi investiti sarebbero stati usati bene: l’intromissione reciproca era poca e così anche il sentimento di solidarietà.
Ora, visto che non tutti gli Stati finanziati si sono comportati rettamente, chi mette i soldi pretende di intervenire anche sul modo in cui i “suoi” soldi vengono utilizzati.
Si noti che, in via del tutto naturale, la necessità di intromissione del Popolo finanziatore, è tanto più intensa quanto più forte è il bisogno di aiuto del Popolo finanziato
Era questa la linea di confine che il referendum Greco doveva tracciare, in apparenza: quella tra solidarietà e sovranità, ossia quale sia il diritto di ingerenza di chi fornisce il denaro e l’orgoglio sovrano di autodeterminazione di chi lo riceve.
Ed in apparenza due terzi dei Greci che hanno votato, hanno detto di non voler rinunciare alla loro sovranità di spesa in cambio di una rinnovata solidarietà di assistenza economica degli altri partners.
Dico “in apparenza” perché, purtroppo, quello è il dato passatoci nell’immediatezza del referendum dai nostri provincialissimi mass-media, come al solito intenti ad osservare l’italico ombelico invece di aprire lo sguardo sul mondo: più preoccupati di raccontarci i deliri degli anti-euro nostrani (quelli che, come avevo già scritto lunedì 6 luglio, erano andati a scimmiottare il sirtaki altrui sulle isole dell’Egeo) che non di capire e raccontarci cosa stesse davvero succedendo.
La realtà la raccontò Jean-Claude Junker al Parlamento Europeo in seduta plenaria la mattina di martedì, 7 luglio scorso, e alcuni dati da lui offerti dai nostri telegiornali e radiogiornali nazionalpopolari non li abbiamo certo sentiti: li ha recepiti chi ha ascoltato il suo discorso in diretta su Radio Radicale.
Il presidente della Commissione Europea, di fatto l’organo governativo dell’Unione Europea, ha testualmente riferito che, nonostante Tsipras si fosse formalmente alzato dal tavolo delle trattative e avesse indetto il referendum, in realtà le trattative erano andate avanti e il giorno della consultazione referendaria erano già giunte a nuovi risultati positivi, per cui le proposte su cui il Popolo Greco era chiamato a votare erano già di gran lunga superate: il suo stesso Governo aveva dunque realizzato una grande mistificazione ai suoi danni.
Sia detto incidentalmente: questa informazione spiega anche le dimissioni di Varoufakis, perché le sue posizioni cieche, populiste ed oltranziste (magari dettate anche dall’occasione di creare un brand ideologico-commerciale intorno a sé) erano già state superate prima del 5 luglio grazie alla serenità operativa di quel sereno comunista ma non populista che è il suo successore, prof. Tsakalotos.
Questo ci conduce a riflettere su quel che riguarda tutti noi da vicino anche nella attuale vicenda europea.
Nel grande Risiko globale che stiamo vivendo nessun Popolo può più pretendere di vivere in un qualche isolamento dorato.
A tutti i livelli di organizzazione civile umana, chi non si coede con i suoi simili e costruisce con loro società più ampie ed aperte, è destinato a sottomettersi prima o poi a qualcuno meno simile e generoso dei suoi vicini.
In sostanza, se non siamo capaci di generare una comunità più grande che appartenga almeno un po’ anche a noi e sia almeno un po’ anche figlia della nostra storia e della nostra cultura, prima o poi dovremo arrenderci ad essere assorbiti da qualche altra grande potenza ben più diversa e prepotente di chi invece ci è simile per esperienza e tradizione, ossia i nostri Popoli fratelli europei.
Non a caso, se la Grecia non rimanesse nell’area-Euro, la sua sorte, avendo pur sempre bisogno di aiuto, sarebbe di finire prima o poi tra le braccia della Russia di Putin o, pure peggio, della Cina Popolare: qualcuno pensa che siano braccia più amorevoli di quelle dell’Unione Europea?
Ecco perché, allora, non possiamo concordare con chi dice che si sta costruendo un’Europa troppo burocratica e freddamente calcolatrice e troppo poco politica: le regole economiche che si stanno affermando sono, di fatto, le future regole politiche della solidarietà.
Occorre che tutti si adeguino, ciascuno coi tempi delle sue danze tradizionali (e tutti sappiamo quanto sia bello ed emozionante il Sirtaki nel suo intenso crescere), perché solo così nascerà la fiducia reciproca tra i Popoli d’Europa.
Ora, peraltro, il Re è davvero nudo agli occhi di tutti: è tempo di generare anche le strutture condivise di governo di questa nuova realtà civile continentale, di fatto già confederata.
Stiamo scrivendo la Storia, proprio come hanno fatto i Francesi 226 anni fa, oggi: ci costa fatica perché la via è impervia e un po’ turbolenta, ma non abbiamo nulla da temere ed anzi possiamo andarne fieri, noi Europei.